I PRIMI 15 GIORNI DEL MARZO '44 ROMA SI RIBELLA: GAPPISTI E FERROVIERI
Per riaffermare la propria presenza nella capitale la Federazione del PFR (Partito Fascista Repubblicano) ebbe la brillante idea di celebrare il 10 marzo del ’44 l'anniversario della morte di Giuseppe Mazzini, con una manifestazione dei Gruppi d’Onore e Combattimento e della G.N.R. (Guardia Nazionale Repubblicana) per le strade del centro, dalla Casa dei Mutilati, in piazza Adriana fino al Vittoriano. La celebrazione da parte dei fascisti di uno dei padri del risorgimento e del pensiero democratico repubblicano apparve ai più come una provocazione. l corteo dei fascisti, ideato e guidato dal Federale Pizzirani, partì la mattina in direzione di via Tomacelli, ma a metà strada ad attenderlo, nascosti dietro i chioschi in Piazza Monte d‘Oro, c’erano i GAP. 11 partigiani in tutto, tra cui Lucia Ottobrini, Franco Ferri, Mario Formentini, Rosario Bentivegna, Raoul, con la copertura dei gappisti della IVa zona, guidati da Alberto Marchesi, oste di vicolo d’Ascanio. L’attacco, fulmineo a colpi di bombe a mano, causo la morte di tre fascisti, il ferimento di molti altri. e costrinse i sopravvissuti ad una indecorosa fuga, mentre i partigiani riuscirono a dileguarsi rapidamente. Il Federale Pizzirani ne uscì illeso, ma questo episodio sancì la fine del fascismo repubblicano a Roma. I tedeschi infatti, pur mettendo una taglia di 500.000 sugli attentatori, si resero conto di star perdendo ormai il controllo delle strade della città e, per non dare ulteriori prove di debolezza, imposero ai fascisti di non svolgere da allora in avanti altre cerimonie pubbliche.
Del resto questo episodio, era seguito ad una serie di azioni, condotte dalla Resistenza e che avevano portato già, nei soli primi 10 giorni di marzo, all’uccisione in pieno giorno di una SS a piazza Verdi, di due spie fasciste a Porta Furba e Torpignattara, e del Commissario di polizia di Centocelle. Armando Stampacchia, noto per la sua ferocia e per essere responsabile dell’arresto di numerosi antifascisti ed ebrei. Il 5 marzo gruppi di donne e bambini avevano protestato per la mancanza di pane, in via Latina, via Appia Nuova e in via Albalonga ed i partigiani di Centocelle, dopo un furioso conflitto a fuoco a piazza dei Mirti, avevano impedito ai fascisti di portare a termine un rastrellamento, uccidendo un soldato tedesco. Anche i movimenti degli occupanti erano ormai divenuti difficilissimi: Il 1 marzo la Banda Moro aveva fatto saltare in aria 4 chilometri di strada ferrata alla Magliana, bloccando così per due settimane il flusso dei rifornimenti tedeschi, destinati al fronte, nei giorni seguenti una autocolonna nazista era stata attaccata a piazza Re di Roma, 4 autocarri erano stati fatti esplodere in diverse parti della città ed il 9 marzo la gappista Carla Capponi era riuscita a fa saltare in aria una autocisterna tedesca nei pressi del Colosseo, mandando in fiamme 20.000 litri di benzina e uccidendo due tedeschi.
Il 14 marzo dell '44, 70 anni fa, pochi giorni dopo l'azione gappista di Via Tomacelli, nel corso di una retata fu catturato dalla polizia nazi-fascista Michele Bolgia, appena salito sul tram n. 8, avendo terminato il turno di notte alla stazione Termini, dove talvolta, lui, ferroviere, figlio di ferroviere, se necessario, veniva impiegato.
La storia di questo eroe della Resistenza stata narrata nel 2011 in un saggio del Capitano della Guardia di Finanza Gerardo Severino "Michele Bolgia, l'angelo del Tiburtino" - edizioni Chillemi e da Felice Cipriani lo ha citato a lungo nel suo libro "Roma 1943-1945 Racconti di Guerra e Lotta di Liberazione" (2009). Una storia che merita, seppur brevemente, di essere ricordata perchè aiuta a comprendere che la Resistenza andò al di là dei confini rappresentati dai partiti e fu sottesa da un complessa trama di collegamenti, percorsi, motivazioni, le quali spinsero migliaia di romane e romani, nella stragrande maggioranza rimasti anonimi, a combattere una coraggiosa quotidiana battaglia civile disarmata contro la barbarie dei nazifascisti, a rischiare la vita per difendere gli esseri umani che chiedevano il loro aiuto.
Michele Bolgia non era giovanissimo. Essendo nato a Roma nel 1894 aveva combattuto nella prima guerra mondiale. Figlio di un ferroviere toscano e padre di due ragazzi, Giuseppe di 12 anni e Sara di 15, aveva drammaticamente perduto la moglie Maria Cristina mitragliata durante il bombardamento aereo di S. Lorenzo. Nei mesi successivi, lui - antifascista da sempre e simpatizzante socialista - riparato con i figli in un piccolo appartamento di via Borelli, vide sempre più spesso la stazione Tiburtina, dove lavorava, invasa da divise naziste aiutate dai fascisti romani. Alla Tiburtina venivano portati gli ebrei rastrellati - come accadde dopo la razzia al ghetto del 16 ottobre di quello stesso anno, gli uomini razziati per il lavoro coatto, i renitenti alla leva, che venivano chiusi nei vagoni piombati e avviati verso i campi di concentramento. Ebbene Michele Bolgia, grazie anche alle funzioni di guarda-merci a cui fu adibito e nonostante la vigilanza di soldati della Wermacht che presidiavano gli impianti ferroviari, quei vagoni inizò ad aprirli, sapendo di rischiare la vita, lasciando socchiuse quelle porte come ha ricordato Mario Limentani - uno dei pochissimi a tornare dall'inferno di Mauthausen - che vide quell' atto semplice ed eroico dall'interno del suo carro. Lui ebbe paura di scendere, ma molti, non sapremo mai quanti, probabilmente centinaia approfittarono di quello spiraglio che improvvisamente per sfuggire all'orrore che li aspettava Michele Bolgia si avvalse della collaborazione del locale corpo di guardia delle Fiamme Gialle, guidato dal Tenente Aladyn Kora (ventiseienne albanese in servizio sin dal '39 presso la Legione Allievi di Roma) e - incredibile a dirsi - di tre eroici ferrovieri austriaci antinazisti (Franz Pomosete, Karl Brimer e Rudolf Aureamirz), appartenenti al numeroso corpo di ferrovieri militarizzati che il comando tedesco aveva trasferito presso gli impianti e le stazioni del nodo di Roma.
Michele non venne mai sorpreso sul fatto, ma i nazifascisti sospettavano di lui e la sera del 14 marzo, a differenza degli altri catturati, lo portarono a via Tasso nella speranza di estorcergli informazioni. Ci rimase due giorni, poi fu spostato nel terzo braccio di Regina Coeli. E da qui - pochi giorni dopo, inserito nella lista infame dei 335 innocenti portati alle Fosse Ardeatine e trucidati dai nazifascisti. Non fu facile neanche identificarlo, Michele Bolgia: ci riuscà il figlio, grazie al monumentale orologio da taschino Roskoff, da cui non si separava mai. Solo 66 anni dopo la sua morte, una medaglia d'oro alla memoria ed al merito civile sarà consegnata al figlio Giuseppe e gli sara intitolato un vicolo senza uscita fuori raccordo, a Tor de' Cenci ! Gli ebrei romani, per fortuna, non lo hanno dimenticato e l'hanno voluto nell'elenco dei giusti.
Il contributo dei ferrovieri romani alla Resistenza fu enorme e non si limitò alla partecipazione di decine e decine di loro alla lotta armata, specialmente nelle squadre di ferrovieri promosse dal PSIUP a Tiburtina, Ostiense, Tuscolano, Trastevere. Essa si concretizzò anche in una serie incessante di atti di sabotaggio più o meno rilevanti che, sommandosi ai bombardamenti alleati di linee e strutture ferroviarie, determinavano interruzioni anche prolungate della circolazione dei treni o la necessità di ricorrere alla circolazione su un unico binario: si andava dalla manomissione degli scambi o dei fili dell'alta tensione, al taglio dei tubi di gomma della condotta dei freni, dalla ritardata esecuzione delle attività di manutenzione delle locomotive e delle vetture da parte degli operai delle officine di S. Lorenzo, alla sottrazione ai tedeschi di materiale e pezzi di ricambio destinati in Germania. Una Resistenza non armata, non a seguito di una scelta ideologica, ma in quanto le circostanze in cui si dispiegò non richiedevano il ricorso alle armi. Per questo alcuni di loro pagarono con la vita. Basti ricordare i sei ferrovieri che, insieme a Michele Bolgia, furono uccisi alle Fosse Ardeatine o la vicenda del cantoniere Roberto Luzzitelli, colpito a morte il 4 giugno del '44 mentre decideva di sminare il Ponte delle nove luci, posto al Km. 10 della ferrovia per Viterbo, minato dai tedeschi in fuga.